Mario Airò

Un’ode per la democrazia diretta
Mario Airò con Edoardo Gaudieri, Franco Lorenzi e Matteo Ludovico

“Gridaro tucti insieme la città facciamo bella”
Frase storico-leggendaria riferita alla fondazione della città dell’Aquila.

Gridaro: una voce unisona e perentoria
Tucti insieme: la coralità delle voci della comunità – non i suoi rappresentanti
La città
Facciamo: visto che è riferito alla fondazione vuol dire costruiamo/progettiamo
Bella: perché è qui che poi viviamo

Per questa manifestazione erano stati pensati altri tre progetti, il primo immediatamente scartato per impossibilità realizzative (si voleva rendere agibile un luogo interno – la scelta era caduta sul Cinema Massimo – in modo da riportare una pala d’altare dal deposito dei beni del Museo in città. Voleva essere una rifondazione – di memoria un po’ medievale, un po’ arcaica – come la consacrazione del luogo di tradizione romana), gli altri due bloccati per non fattibilità in quanto richiedevano di intervenire nella ‘zona rossa’ (uno prevedeva di riaccendere l’insegna della profumeria di Via Sallustio, metterci un suonatore di clarino a suonarvi sotto e trasmettere questa immagine in tempo reale sul corso: un piccolo segno a dire che nella città “vecchia” ancora ci sono energie, ancora ci si innamora, ancora si fanno serenate. Il secondo voleva riaccendere tredici finestre al primo piano di Via Garibaldi – al momento la via più buia della città – e di scrivere sul pavimento – come segnaletica stradale – la scritta di fondazione/rifondazione, a indicare la volontà di persistere nella città). Il laser che vedete sarebbe stato diverso se questi progetti fossero stati realizzati – sarebbe stato solo il segno astratto del respiro della città che si risolleva.
L’Aquila 5 aprile 2010
Mario Airò

Fare-spazio
Nel breve testo L’arte e lo spazio del 1969 Martin Heidegger, apprestando delle riflessioni sulla natura della scultura, si sofferma sul concetto di spazio, osservandone il carattere duplice di presenza-assenza, interrelazione tra “luogo” e “contrada”, tra appartenenza e “libera vastità”, che si unisce alla concezione del tempo come “tempo-atmosfera” o “tempo-della-vita”, “maturazione”, precedentemente elaborata nel famosissimo saggio Essere e tempo.
“Lo spazio – appartiene al dominio di quei fenomeni originari che, secondo quanto dice Goethe, al loro contatto provocano nell’uomo una sorta di paura che si impadronisce di lui fino all’angoscia? Infatti dietro lo spazio, a quanto pare, non vi è nulla cui esso possa essere ricondotto. Di fronte ad esso non è possibile distrarre la propria attenzione verso qualche altra cosa. Ciò-che-è-proprio dello spazio deve mostrarsi da se stesso. Ma ciò-che-è-proprio dello spazio lo si può ancora dire?” e più avanti, invitando all’ascolto del linguaggio: “Nella parola spazio parla il fare – e lasciare – spazio. Il che significa disboscare, dissodare. Il fare-spazio porta il libero, l’aperto per un insediarsi e un abitare dell’uomo. (…)
Fare-spazio conferisce la località che appresta di volta in volta un abitare. (…)
Fare-spazio è libera donazione di luoghi.
Nel fare-spazio parla e si cela al tempo stesso un accadere”.
Costruire e abitare in tedesco hanno la stessa radice, che è anche quella di essere.
Seguire il percorso del lavoro di Mario Airò all’Aquila mi ha spinta a cercare e rileggere queste pagine. Trovavo connessioni dirette tra gli spazi devastati dal sisma, i resti, le macerie, il lavoro che l’artista vi avrebbe dovuto svolgere e lo scritto di Heidegger. Sentivo la città, così vuota e silenziosa, come un possibile campo di attivazione di tali presupposti.
Gli interventi dell’artista, maturati attraverso il dialogo e la collaborazione con alcuni studenti dell’Accademia di Belle Arti locale e lunghe passeggiate nella ‘zona rossa’, hanno cercato di dar forma a delle possibilità per la città, suggerite da questa stessa.
La necessità di attivare un pensiero d’azione che non rispondesse solo alle esigenze momentanee dettate dall’iniziativa in corso, ma che provasse a essere un gesto di penetrazione nella coscienza collettiva ha fatto sì che gli stessi edifici devastati dell’Aquila venissero scelti come luogo su cui agire, da cui idealmente partire per fare arte e quindi, soprattutto, cultura. L’istanza che pervade queste azioni è quella di affrontare la situazione attuale della città ascoltandone il respiro e andando in avanti, per valutare schiettamente le circostanze e pensarle attivamente, senza sentimentalismi o spettacolarizzazioni, con un ottimismo progettuale distante dalle evidenti strumentalizzazioni in atto e sperando di veder sorgere presto quel laboratorio delle idee di cui la città necessita per la sua ricostruzione.
Di tre progetti elaborati dall’artista insieme ai ragazzi dell’Accademia, solo uno è stato portato a termine.
Da parte dell’amministrazione comunale non è stata ben compresa l’importanza dell’azione corale di questi tre interventi e, di conseguenza, non è stato possibile trovare qualcuno che si assumesse la responsabilità di concedere i permessi necessari per realizzarli.
Per risolvere questa situazione, Mario Airò e due dei ragazzi coinvolti hanno deciso di modificare l’unico dei progetti che era possibile portare avanti affinché, in qualche modo, potesse includere alcune idee degli altri e conferire ‘totalità’ all’intervento.
Sui resti delle case del quartiere popolare di Fortebraccio, che si vedono affacciandosi dalla scalinata di fronte alla chiesa di San Bernardino, due linee di luce scorrono perpendicolari, incrociandosi con un movimento che va dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra, segnando i volumi delle architetture e spezzandosi nel seguire lo spazio frastagliato dalle abitazioni e dal terremoto. Questi due segni luminosi, realizzati con un laser (strumento-icona della cultura pop di cui, secondo l’artista, è interessante servirsi in maniera altra), percorrono quel che resta del chiassoso quartiere come una carezza e, allo stesso tempo, come gesti che segnano “luoghi” e “contrade”, che penetrano e scompongono analiticamente un’immagine reale. Una scritta, poi, compare sulle case “Gridaro tucti insieme la città facciamo bella”, in una sequenza che, dapprima, parola per parola dalla strada sale verso l’alto, sopra i residui dei tetti e, quindi, scorre orizzontale da destra verso sinistra.
La notte del 6 aprile chiunque si fermasse davanti a questa installazione seguiva tutto il percorso dei fasci luminosi, scandiva parola per parola la frase di fondazione della città come se in quel momento la stesse reimpiantando nella propria memoria.
La stessa sera, accanto alla scalinata che introduce questa visione, è stato affisso un manifesto redatto dall’artista e dai ragazzi in cui vengono descritti e resi pubblici i progetti che non è stato possibile realizzare. Il laser che in quel momento sotto gli occhi degli spettatori scandiva la città, le sue parole di fondazione, ma al contempo si faceva carico delle forti problematiche politiche e sociali di questa nella sua ricostruzione, avrebbe dovuto essere, inizialmente, solo il segno del respiro della città. Quella sera, anche nel titolo, è diventato Un’ode per la democrazia diretta.

Già un’altra volta, con un semplice segno di sottolineatura del reale Airò ha dato forma a un’invisibile memoria tellurica. Ad Arco, una cittadina in provincia di Trento, ha, infatti, realizzato 5.500.000 anni fa, un laser che proiettava un fascio di luce verde direttamente sul fianco di una montagna. La linea che segnava la roccia era la proiezione del livello del mare prima della glaciazione, prima che il ghiaccio scivolasse giù allisciando la montagna. Nella notte, guardando quel segno evidente, ma allo stesso tempo evanescente, si aveva la sensazione di essere sott’acqua. Come spesso accade nei lavori dell’artista, è una memoria riposta che viene scoperta e resa sensibile per mezzo di un gesto minimo, misurato ed estremamente rigoroso.
Non è l’invisibilità palese di una immagine che soggiace alla sua forma quotidiana ciò che Mario traduce: egli ne suggerisce di nuove, lascia intravedere nuove possibilità senza però indicarle paradigmaticamente, sostenendo che l’esperienza sia “parte del laboratorio mentale dell’artista, ed è fondamentale rispetto alla qualità del lavoro. La virtualità percettiva, inoltre, dona al lavoro una dilatazione dell’idea iniziale collegandola anche con cose distanti”.
Ricordo, per concludere, ancora Heidegger e il suo concetto dell’uomo che vive, “vivendo-come-corpo” ammesso nello spazio “soggiorna già in anticipo in una relazione con il prossimo e con le cose”. Quando un artista realizza un’opera, prosegue il filosofo tedesco seguendo queste riflessioni, da forma all’invisibile.
Lo spazio, che sembra immenso in questa città, non deve produrre immobilità: l’artista traduce nei fasci di luce, che “parlano e celano”, e nelle scritte che questi formano, tutte le esperienze e le relazioni propiziatorie a un fare-spazio. Così facendo, portando in luce la frastagliata evidenza della distruzione e accompagnandola con una frase positiva della tradizione, ha lasciato che le cose stesse parlassero della loro libera vastità e continua possibilità.
Matilde Galletti

 


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